Italia, paese di frontiera, paese di approdo, geograficamente e storicamente esposto agli arrivi di popoli che fuggono da guerre e situazioni difficili che, sulle sue sponde, cercano la realizzazione al proprio “Italian dream” , un riscatto e condizioni di vita che il loro luogo natio non puo’ offrire.
Li chiamano “viaggi della speranza”, questo vero e proprio esodo, gestito spesso da persone senza scrupoli, che fanno mercato della disperazione umana. L’Isola di Lampedusa è stata insignita al Premio Nobel per la Pace: primo baluardo nell’accoglienza di profughi e migranti, ha una situazione oramai prossima al collasso, con i Centri di prima Accoglienza che minacciano di esplodere per le migliaia di presenze, con gli arrivi inarrestabili ed emergenze continue da dover fronteggiare ma, soprattutto, con gli inesistenti aiuti da parte di una Comunità Europea sorda alle richieste di un suo Stato Membro.
Ma nel nostro microcosmo, nel nostro Paese, qual è la situazione?
Martinsicuro è l’ennesimo caso sintomatico di un Paese di frontiera. Forse per la sua posizione geografica, forse per congiunture storiche: è il secondo comune, in Abruzzo, con il numero più elevato di presenze straniere. Dalle ultime indagini ISTAT, su una popolazione di 16169 abitanti, ben 2468 sono stranieri.
Ma il dato più sorprendente è il numero di etnie presenti sul nostro territorio, ben 64, con tutto il loro corredo di lingua, cultura, religione e tradizioni differenti.
La nostra società, quindi, è sempre di più meltin pot culturale, il nostro quotidiano presume il confronto continuo e costante con il vicino di casa, il compagno di scuola, il negoziante, il cittadino straniero, ma ci siamo davvero “integrati” con queste popolazioni tanto distanti, spesso non solo geograficamente, ma soprattutto, culturalmente da noi? Il cittadino martinsicurese ha davvero imparato a convivere in maniera civile e tollerante con persone diverse ? Oppure l’aumento della criminalità, spesso associata alla malavita straniera, e condizioni economiche, esacerbate da una crisi che sembra non voler finire, hanno condizionato e viziato l’approccio del cittadino “autoctono” nei confronti dello straniero?
Abbiamo posto queste domande ad alcune persone che, per lavoro o scelta, hanno deciso di vivere a stretto contatto con gli immigrati della nostra comunità: i volontari della Caritas diocesana.
La Caritas è una delle associazioni di volontariato che presta il proprio gratuito e solidale aiuto a persone in difficoltà economica e materiale. Qui, i volontari, provvedono alle esigenze di coloro che arrivano a chiedere un pasto, dei vestiti, un tetto sotto cui ripararsi, cure e aiuti medici.
Chi viene a chiedere il vostro aiuto?
Moltissimi sono stranieri, alcuni appena arrivati, altri li conosciamo ormai da tempo. Immigrati dell’est Europa, dell’Africa, del sud est asiatico. Alcuni vivono alla giornata, altri avevano un lavoro ed ora l’hanno perso. Negli ultimi tempi, ad attendere i nostri aiuti, ci sono anche molti italiani, pensionati o padri di famiglia senza più lavoro, ma che rimpolpano la già nutrita schiera di persone in serie difficoltà economiche.
Cosa vi chiedono?
In prevalanza cibo. Poi abbigliamento, scarpe, coperte. Vestiti per bambini. Ci sono stati chiesti anche presidi medici, busti anatomici, sedie a rotelle. Spesso alcuni medici si mettono a disposizione per visite mediche e cure gratuite. Ad aiutarci abbiamo anche alcuni negozianti della zona che, a titolo puramente gratuito, ci donano pane fresco, pasti caldi.
Come fate a fronteggiare i costi?
Noi ci autofinanziamo. A volte mettiamo a disposizione le nostre risorse economiche o materiali. La scorsa settimana abbiamo aiutato una famiglia tunisina nel trasporto dei propri beni durante un trasloco, a volte fungiamo da vera e propria agenzia immobiliare, cercando e reperendo abitazioni ed alloggi. La comunità europea mette a disposizione dei finanziamenti, ma non sono sufficienti; spesso ci mettiamo a vendere piccolo artigianato autoprodotto o piantine, di fronte alle chiese, pur di racimolare qualcosa in più.
Martinsicuro, tutto sommato, è un paese che convive in maniera pacifica e civile con gli immigrati. Possiamo parlare dunque di integrazione?
L’integrazione è una parola grossa, perché manca la volontà da ambo le parti. Spesso i cittadini extracomunitari vivono chiusi all’interno del loro cerchio sociale , con le loro abitudini e tradizioni, e questo non permette un’apertura verso tutto quello che viene considerato “altro” da loro. Lo stesso vale per gli italiani: la paura delle nuove malattie, molte tornate in auge in contemporanea ai flussi migratori, la mancanza cronica di lavoro, la precedenza, nello stanziamento degli aiuti, agli stranieri ( che spesso versano in condizioni economiche difficili), piuttosto che alle persone locali, ha fatto da muro ad un ‘effettiva e costruttiva amalgama .
Esco dalla Caritas e, sulle scale, ad aspettare il proprio turno, c’è una famiglia albanese. A Martinsicuro è la comunità più numerosa, con 740 abitanti, registrati all’anagrafe.
Inizio a parlare con Giorjana, 24 anni che, con i suoceri, attende di essere ricevuta per il pacco alimentare mensile. Dopo l’iniziale, e normale, diffidenza, riesco a farmi accettare e a porre alcune domande.
Da quanto tempo vivete a Martinsicuro?
Giorjana: Ho raggiunto mio marito sette anni fa. Prima vivevo in Albania con i miei genitori. Lui, invece, è qui da quindici anni. Prima aveva un lavoro, presso una ditta edile, faceva il muratore. Adesso l’hanno licenziato e prende la disoccupazione, ma è difficile arrivare a fine mese con una bimba di sette mesi e i suoceri che vivono con noi e sono completamente a nostro carico.
Cosa ti aspettavi di trovare in Italia?
Giorjana: Quando ho lasciato la mia terra, mi aspettavo di trovare condizioni migliori, un lavoro, una casa. Vedevo l’Italia alla tv, in Albania, dove si stava bene, c’era da mangiare, c’era lavoro. Invece dobbiamo chiedere aiuto alle associazioni, alla Caritas, al parroco, per poter sopravvivere. I miei suoceri sono anziani, hanno bisogno di cure mediche, non possono aiutarci economicamente.
Avete mai pensato di tornare nella vostra terra?
Giorjana: No, perché è qui che voglio far crescere mia figlia. Voglio offrirle quelle opportunità che nel mio paese mancano.
Che rapporto avete stabilito con gli italiani?
Giorjana: Molti di loro sono caritatevoli e gentili, ma molti indifferenti. Io non ho amici italiani.
Perché, ancora nel terzo millennio, rimane così difficile integrarsi? Perché non si riescono a superare tutti i retaggi, i tabù, le paure nei confronti della “diversità”? perché in una società evoluta, come la nostra, si è ancora fermi alla diffidenza nei confronti dello straniero? Dobbiamo dunque riporre le speranze nelle nuove generazioni, perché la parola “integrazione” diventi, finalmente, una condizione assolutamente normale ed ovvia della società?