“Ahi dal dolor comincia e nasce l’italo canto” scrive Giacomo Leopardi nella lirica “Ad Angelo Mai”. È il dolore, infatti, il motore principale che sembra spingere ogni poeta a scrivere, a tirar fuori, attraverso un atto catartico, tutto il proprio universo interiore.
Ed è questo, credo, il filo conduttore che ha dato vita e animato la serata di sabato 24 ottobre, dedicata alla presentazione del libro “Le vie del disagio” di Maria Giulia Mecozzi, edito da “Il Martino”, che si è svolta presso la libreria La Bibliofila di San Benedetto del Tronto, con la regia di Annalisa Frontalini.
Il disagio esistenziale, dunque, è il punto di partenza dal quale l’autrice ha intrapreso, attraverso questa silloge di quarantuno poesie, un percorso di maturazione e di trasformazione che l’ha portata, alla fine, alla consapevolezza che il male e il dolore sono una parte ineliminabile della nostra esistenza, nonché uno strumento terapeutico che può aiutarci ad affrontare la vita, apprezzandone gli attimi di felicità.
A conversare con Maria Giulia c’era il professore Ignazio Caputi, che, con acume e lucidità, ha focalizzato l’attenzione su tutte le tematiche affrontate nel libro, ma soprattutto è riuscito a condurci, attraverso i commenti e le riflessioni dell’autrice, in un mondo variegato e multiforme, ricco di sfumature emozionali dalle tinte forti, un mondo che la Mecozzi ha saputo ricostruire partendo dalla propria sofferta esperienza personale senza imbarazzi e tabù, condividendolo con grazia, tenerezza e disinvoltura con tutto il pubblico presente.
Particolarmente toccanti sono stati i momenti affidati alla lettura di alcune tra le poesie più significative dell’opera a cura dell’autrice stessa e dell’attrice, ormai fedele collaboratrice di molti autori, Sara Palladini, e accompagnate dalle soavi note della chitarra di Giuseppe Cistola. E molto originale è stata, a mio avviso, la scelta di leggere insieme alcune poesie, accentuando, in questo modo, il pathos narrativo e sottolineando, così, la non univocità della voce narrante.
La raccolta è divisa in tre parti, come ha ben spiegato Maria Giulia. La prima, dal titolo “La trappola”, è quella più intimista e, come è possibile dedurre dalla lettura di alcuni di questi componimenti, anche la più sofferta. Si legge, in questi versi, un’inquietudine, un travaglio interiore profondo e pungente, una lotta interna che deve, però, necessariamente, evolversi in qualcos’altro.
È così che l’autrice, con il secondo gruppo di poesie, passa, attraverso, appunto, “Il Limbo”, dal particolare all’universale, dal personale al corale, perché il suo dramma diviene il dramma di tutti, perché lei stessa si fa portavoce di sentimenti che non sono soltanto i suoi, ma anche quelli dell’umanità intera.
Infatti, come ha dichiarato Maria Giulia durante la presentazione del libro, la sua poesia non vuole essere solo l’espressione delle sue emozioni private, ma, pur partendo da esse, testimoniare anche il disagio altrui, entrare, senza chiudersi in uno sterile egoismo, nel mondo dell’altro, che non è poi così diverso e distante dal nostro. E così fa, ad esempio, nella poesia “I figli di Ulisse”, che lei ha definito “profetica”, avendola scritta anni or sono, quando l’attuale esodo di profughi dalle loro terre non era ancora così massiccio. Ma c’è di più: tornando indietro nella storia, Maria Giulia ci porta a riscoprire, con intensità e potenza evocativa, le radici di noi stessi e del nostro presente, come accade, per esempio, nella poesia sui partigiani.
Questa impronta universale della sua poesia mi ha fatto tornare in mente quella di un grande poeta americano dell’Ottocento, Walt Whitman, che, rompendo con tutti gli schemi della tradizione precedente, ha, appunto, fatto della poesia uno strumento sociale, dando voce, attraverso di essa, a tutto il genere umano. E questo sembra sia l’intento anche di Maria Giulia Mecozzi che, come lei stessa ha affermato durante l’evento, è fermamente convinta della funzione sociale della poesia, perché il poeta non può più isolarsi dal mondo circostante, ma deve scendere in campo e con esso interagire, come lei, appunto, ha fatto.
Siamo arrivati così, forse persino un po’ trasformati, all’ultima parte della presentazione e, di conseguenza, della raccolta: “La fuga”. Una fuga verso la luce, verso un nuovo futuro, verso la vita. Perché anche nel dolore, nel suo dolore, Maria Giulia ha, in fondo, saputo trovare la forza di superarlo, grazie alla speranza nella vita stessa. Mi ha colpita, infatti, proprio il fatto che, in questo terzo gruppo di poesie, ricorra in maniera piuttosto frequente l’uso della parola “vita”. La fiducia nella vita e in tutto ciò che ci offre, nel bene e nel male, diventa, quindi, un elemento fondamentale per la nostra rigenerazione che, però, può avvenire solo contando sulla nostra forza di volontà e sul nostro coraggio, e non sull’aiuto di un’entità superiore o di un intervento esterno. Siamo noi, infatti, come ha ribadito Maria Giulia, i soli e unici artefici della nostra esistenza.
Un grazie di cuore, dunque, a Maria Giulia Mecozzi che, nella splendida cornice impreziosita dai quadri della pittrice Paola Celi e del pittore argentino Maxs Felinfer, ci ha regalato un emozionante assaggio delle sue poesie e della sua poetica, non prive di evocazioni filosofiche, data la sua formazione culturale, e frutto, oltre che di un ricco e denso vissuto, anche di una personalità tormentata e complessa e di una sensibilità accesa e vivace, che non sembrano quasi appartenere a una ragazza di soli ventisei anni.