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Ugo Betti, magistrato, drammaturgo, poeta: sipario chiuso su un grande teatro

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MACERATA – Pochi, veramente pochi in Italia e anche nelle Marche hanno avuto occasione di accostarsi al teatro di Ugo Betti. Sembra strano perché Ugo Betti è considerato dalla critica ufficiale la voce più autorevole del teatro post pirandelliano; ancora di più perché è molto più conosciuto e apprezzato al di fuori dei confini d’Italia; perché trattò temi di grande contenuto e di vivissima attualità; perché pure la sua produzione è abbondante, varia per genere e significativa essendo autore non solo di opere teatrali, drammi e commedie, ma anche di raccolte di poesie e di novelle. Sembra per questo opportuno scoprire e comprendere le cause di questa immeritata diffidenza. Scorriamo innanzi tutto notizie relative alla sua vita.

Ugo Betti era marchigiano, precisamente di Camerino, dove era nato nel 1891, il 4 febbraio. Ben stimata la sua famiglia. Il nonno paterno era stato per 25 anni rettore dell’Università di Camerino, il padre era direttore all’ospedale civile di Parma. Da entrambi avrebbe ereditato interessi culturali e speculativi, di introspezione psicologica e di etica professionale. Compì studi classici, si laureò in giurisprudenza manifestando contemporaneamente attitudine per diversi sport. Scoppiata la prima guerra mondiale, si arruolò volontario, si distinse, fu decorato al valore, venne fatto prigioniero durante la rotta di Caporetto e internato per diversi mesi durante i quali, quasi segretamente, incominciò a scrivere poesie. La sua prima raccolta è Il re pensieroso’ dove manifesta per la prima volta una intima, sincera tenerezza velata di pietà per le creature più fragili e indifese.

Agli inizi della sua carriera di magistrato avrebbe più tardi individuato e trattato altri temi con l’osservazione degli errori e delle sofferenze degli uomini. Anche ciò che sgomenta deve essere considerato, ebbe ad osservare, altrimenti l’uomo non sarebbe degno della ‘corona della sua coscienza’. Tradotta in linguaggio teatrale una simile affermazione significava mettere lo spettatore di fronte a responsabilità anche personali e alla verità riflessa dei propri difetti. Tanto creava inevitabilmente  disagio. È il motivo per cui il suo teatro tardò ad affermarsi in Italia dove, non come in altri paesi, facile e immediato era un riscontro con i fatti rappresentati. Meravigliò in ogni modo che dopo la delicatezza della poesia Ugo Betti scrivesse un dramma molto forte, ‘La prigioniera’ in cui parlava delle tentazioni dei sensi e persino di un temerario dialogo con Dio. Sarebbero venuti successivamente altre due opere teatrali, ‘La donna sullo scudo’ e ‘La casa sull’acqua’, dove ad essere considerato era il dissidio di due fratelli innamorati della stessa donna, poi due raccolte di novelle dai contenuti veristi, ma anche fiabeschi, simbolici,  surreali (sembra una contraddizione, ma non lo è) e un altro dramma, ‘Un albergo sul porto’. Sarà però a trentotto anni, dopo essere stato nominato giudice a Roma, che apparirà la sua più importante produzione.

Nella consapevolezza dei valori e dei limiti della sua professione Ugo Betti si rese conto nelle aule di giustizia delle esperienza di dolore,  di peccato, di pentimento. Scrisse allora le sue opere migliori: il dramma ‘Il Diluvio’ dove denunciò l’ammirazione della piccola borghesia per i potenti, la fragilità della donna adescata dalla ricchezza, la paura e la diffidenza che sono di ostacolo a nobili impegni. ‘Frana allo scalo nord’  sviluppa invece il tema delle responsabilità dell’uomo, mentre ne ‘Il cacciatore d’anitre’  ad essere considerata è l’ambizione per la quale è possibile tradire ideali e affetti perdendo con essi la vita.

Dopo aver scritto anche quattro commedie, “Una bella domenica di settembre”, “ I nostri sogni”, “Il paese delle vacanze”, “Favola di Natale”, ritornerà al teatro drammatico con “Notte in casa del ricco”, “Ispezione” “Marito e moglie” per esplorare la sofferenza del colpevole, il desiderio di redenzione, l’impossibile felicità terrena, l’egoismo dei rapporti umani, il cinismo.

È a cinquantadue anni che Betti scrive quello che è considerato il suo capolavoro,  “Corruzione al Palazzo di Giustizia”. Sono diversi gli elementi drammatici che ne costituiscono l’intreccio: l’ambizione e la scalata al potere, la lotta spregiudicata per la carriera nell’ambiente di una soffocante burocrazia, l’incertezza morale di giudici che non credono più nella giustizia, la tragedia dell’innocenza travolta da un ambiente disumano, l’allucinante vicenda del colpevole che finirà tuttavia per comprendere la vanità del suo immeritato successo. È in essenza la parabola del fallimento di una giustizia terrena con la resa ad una verità e ad una giustizia che supera le leggi dell’uomo.  Dopo il grande successo della prima a Roma nel 1949, il dramma venne trasmesso per radio, pubblicato su riviste specializzate, premiato, riproposto in importanti città prima di valicare la frontiera e passare in Germania, a Santiago del Cile, a Parigi, alla BBC. Ebbe In Italia grandi interpreti tra i quali Elena Zareschi, Salvo Randone, Enrico Glori, Vittorio Gassman, Arnoldo Foà, Aroldo Tieri.

Gedeon (Delitto all’isola delle capre), Teatro Stabile di Haarbus, Danimarca, 11 aprile 1955

Da elencare almeno altre opere successive: i drammi “Lotta fino all’alba”, un giallo ambientato negli anni di guerra e “Spiritismo nell’antica casa”; “il racconto “Irene, l’innocente” e ancora un dramma, Delitto all’isola delle capre” dal quale è stato tratto un melodramma rappresentato in prima assoluta nell’ultima Stagione Lirica del Pergolesi. È la storia di tre donne che, dopo lo sconvolgimento di una guerra, lasciano la città per vivere in una casa di campagna in rovina.  Vivono in assoluta libertà, pascolando pecore. Saranno tutte e tre – madre, figlia, cognata – sedotte da un uomo che si dice amico del marito defunto; falso e fedifrago, a dire della moglie. Quando però l’ospite sbruffone, spavaldo, spregiudicato, profittatore cadrà accidentalmente in un pozzo non sarà soccorso. Dopo aver allontanato figlia e cognata sarà la madre a chiudere con lui nel pozzo vendetta e ricordi. È un giallo non a lieto fine, con la denuncia dell’infelicità causata dall’accondiscendenza dei sensi e la delusa proclamazione di una libertà etica assoluta che rimanda ad antichi miti. L’ambientazione è allo stesso tempo realistica e surreale.

Seguirà una parentesi narrativa con il racconto “Una strana serata” e il romanzo “La pietra alta”. Successivamente Ugo Betti tratterà il tema della dignità umana ne “La regina e gli insorti”; poi verrà l’ultimo lavoro teatrale rappresentato in vita, “Il giocatore”. Ne è protagonista un uomo abile e senza scrupoli  responsabile della morte di sua moglie, che sarà assolto dalla giustizia umana, ma umiliato da quella divina.

The Burnt Flower Bed, (L’aiuola bruciata) all’Arts Theatre di Londra, 9 settembre 1955.

Dopo la morte a Roma nel 1951, furono ritrovati di Ugo Betti tre drammi postumi: “Acque turbate”, “L’aiuola bruciata”, “La fuggitiva” in cui è auspicata la riedificazione dell’umanità dopo gli orrori della guerra.

Come è evidente si tratta di una produzione rilevante, che tratta temi sui quali – è stato detto in un convegno a lui dedicato – specialmente i giovani dovrebbero meditare: la solitudine interiore, l’inquietudine esistenziale, il mistero del destino individuale, l’anelito inappagato di giustizia, la relatività dei sentimenti, la pietà per gli esseri umani più deboli, l’importanza del dolore e del male che non possono essere esorcizzati o elusi, ma per quanto umanamente possibile compresi e sanati. C’è però nel teatro di Ugo Betti anche un’ inquietante denuncia: la giustizia umana può sbagliare anche in buona fede o venire elusa o persino usata con aberrazione nei confronti di crimini che restano impuniti. Non tuttavia quella divina, inscritta nel destino degli uomini, che, se violata, prima o poi si traduce in una autocondanna. E ancora c’è da riflettere su quanto sia difficile conciliare pietà e legalità, quanta responsabilità comporti amministrare la giustizia, quanto sia comunque relativa la giustizia degli uomini. Grande davvero e ancora tutto da riscoprire questo drammaturgo.

Augusta Franco Cardinali

Ancona

Stabat Mater, il dolore struggente di Maria nell’opera di Giovanni Battista Pergolesi

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ANCONA – Prima di affrontare l’esame critico di un capolavoro che ha fatto molto discutere quale è lo ‘Stabat Mater’ di Pergolesi può sembrare opportuno cercare di comprendere quale fosse lo stato d’animo del compositore al momento della creazione dell’opera. Necessario anche, perché inevitabilmente l’arte è riflesso o riscatto di esperienze di vita.

Pergolesi aveva allora appena ventisei anni. La morte aveva già più volte visitato la sua famiglia e poteva essere temuta come una predestinazione. Contro di lei però egli aveva trovato riscatto nella musica. Ad essa si era dedicato instancabilmente bruciando energie, perché occorreva fare in fretta, molto in fretta prima che sopravvenisse. In soli cinque anni abbondantissima e stupefacente la sua produzione. Ne era stato gratificato, ma ne aveva tenuto un conto relativo, traendone soprattutto  incitamento a continuare.

Non conobbe così la fama e la gloria che sarebbero venute solo a distanza di anni dopo la sua morte: non giustificate quindi, come i più diffidenti hanno ipotizzato, dalla commozione che la sua scomparsa precoce poteva aver suscitato. Oltre la musica però e a sostegno di questa Pergolesi era certo consapevole di aver avuto dal cielo un dono straordinario, testimonianza della grazia divina, sostegno e gioia per lui. Non poteva allora essere triste Pergolesi nemmeno in punto di morte, né inabissarsi nello sconforto né  immaginare il dolore di Maria come uno strazio delirante. Più comprensibilmente pensò ad uno struggimento interiore, alle parole di profonda tenerezza da lei rivolte con trepidazione all’amoroso figlio, a lacrime silenziose, ad un abbandono totale alla volontà divina in cui  fin dal suo primo ‘sì’ aveva creduto.

Da una fede assoluta come la sua non poteva derivare un assoluto, inestinguibile sconforto nemmeno di fronte alla prova estrema. Non poteva dunque essere umana disperazione quella di Maria, ‘figlia di suo figlio’. Fu attendibilmente questo dolore sublimato ad ispirare e a confortare il giovane musicista che si andava spegnendo. Pergolesi compose allora lo Stabat Mater liberamente, a cuore aperto, senza tenere conto di teorie contrappuntistiche e dello stile aulico a cui sembrava che la musica sacra dovesse allora obbligatoriamente attenersi, mentre anche gli attraversava la mente il ricordo di quella che in passato aveva felicemente composto: concludendo infine con un ‘Amen’ che è una fiduciosa, gloriosa, esultante ascensione al cielo. È stata giudicata da alcuni critici opera di ibrida ispirazione: secondo altri invece rivelatrice compiuta di tutta la sua arte.

L’ha definita «sintesi di tutte le passioni dell’uomo, credenti o no» Cristian Carrara,  direttore artistico del Festival, presentando lo Stabat Mater di Pergolesi l’8 settembre nella Chiesa di S. Marco, gremita all’inverosimile da un pubblico che ha coronato di applausi il concerto atteso come evento clou della rassegna. Era annunciato che, nello stesso organico, avrebbe iniziato quale ambasciatore di pace un percorso in Europa partendo da Rodi, dove sarà accolto in ottobre per il ‘Terra Sancta Organ Festival’. Inizialmente altre due composizioni sono state pure ascoltate. Procedendo a ritroso nel tempo la prima è stata ‘O magnum misterium’ di un musicista contemporaneo, Morten Lauridsen, danese; opera, ispirata al mistero del Natale, trascritta sia per orchestra che per organo e coro. Di delicata ispirazione, conformata per scrittura ad un composto stile classico, è intima, serena contemplazione e commossa preghiera. Venne composto invece nel 1938 da Samuel Barber l’Adagio for strings’ su testo dell’Agnus Dei’, concepito inizialmente per coro, poi riportata per orchestra d’archi. Diretto in passato anche da A. Toscanini, ha tratti di un’ardente ispirazione che s’innalza fino a vette sublimi e poi gradualmente si stempera e si spegne. Ed ecco infine lo ‘Stabat’ nell’interpretazione densa di pathos del Time Machine Ensemble, del M° Marco Attura, direttore e compositore molto stimato più volte ospite del Festival Pergolesi Spontini e di due voci ben contrastate e incisivamente drammatiche: quella cristallina del soprano ucraino Nikoletta Hertsak e quella scura, singolarmente profonda del contralto cagliaritano Federica Moi. L’esaltazione di significati apparentemente antitetici ha rimandato non solo all’ universo di emozioni descritto da Pergolesi, ma anche all’autore del testo, Jacopone da Todi, al suo irruento, appassionato carattere e alla sua fervida fede investita di un potente, struggente afflato poetico. Forse all’esecuzione è venuta a mancare una patina di antico per il fatto che il Time Machine Ensemble non suona strumenti d’epoca, ma moderni. Non importa, poiché quella dello ‘Stabat’ di Pergolesi è musica senza tempo.

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Ancona

Michele Placido applaudito alla cerimonia finale del XIX Premio Franco Enriquez

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michele placido alla cerimonia finale del xix premio franco enriquez 2023

ANCONA – La cerimonia finale della XIX edizione del Premio Nazionale Franco Enriquez – Città di Sirolo e Regione Marche, si è svolta, il 30 agosto 2023, alle 21,00, al Teatro Cortesi di Sirolo.

L’intervento di Paolo Larici, direttore artistico della manifestazione e Presidente del Centro Studi Internazionale per la Drammaturgia e del Premio Franco Enriquez, ha sottolineato l’importanza di avere più competenze tra le associazioni addette alla distribuzione e avere più coraggio nella programmazione. Il teatro ha bisogni di scenografi, costumisti, macchinisti, illuminotecnici o light designer, un artigianato ed un’arte che vanno scomparendo. Utilizziamo questi nostri piccoli teatri, come il Cortesi di Sirolo,  per una riforma culturale e professionale, «non dobbiamo avere paura di progetti di alto spessore perché…non esiste un pubblico all’altezza, esiste il pubblico, disposto a mettersi in gioco ogni sera perché curioso e preparato da un’assidua e costante frequentazione, qui la proposta di una card per il teatro e lo spettacolo dal vivo che ne faciliti la fruizione, dobbiamo ripensare ad una formazione dell’ascolto che può avvenire solo proponendo temi e spettacoli di alto valore».

In platea, diverse personalità del mondo della cultura, della politica e dello spettacolo che hanno seguito la cerimonia finale del XIX Premio Franco Enriquez ed hanno applaudito i premiati per il loro impegno civile e sociale. Quello che segue è l’elenco dei premi: Alla carriera Filippo Timi «interprete spiazzante che mescola rabbia e dolore a una esilarante ironia. … Filippo Timi tocca il tema della disabilità mettendo a fuoco l’antitesi tra sogno e realtà, tra una società inclusiva e una società esclusiva e discriminante».  

A Elena Mannini, premio alla carriera, perché ha «arricchito il teatro italiano, la scenografia e il costume…espressione di una natura sinergica di intenti a metà tra arte e artigiano».

Invece, a Vittorio Franceschi, premio per la drammaturgia, «per il suo piccolo capolavoro teatrale, un prezioso gioiello, frutto di un pensiero teatrale consolidato e forte di un’esperienza unica e straordinaria». E ne Il domatore la sua arte diventa una «sinergia introspezione conoscitiva sulla vita e quindi sul teatro».   

Lungo applauso per Michele Placido che ha ricordato la sua esperienza in palcoscenico vicino a Strehler. All’interprete foggiano va il riconoscimento per miglior attore protagonista: «è uno splendido Don Marzio in questa commedia vivace e arguta di Goldoni che ci offre uno spaccato di vita borghese della Venezia settecentesca…Il suo personaggio, una presenza assenza che giustifica le bricconate della sua maschera».

A Corrado d’Elia che «interpreta magistralmente il canto di un Omero e ci pone di fronte al tema della vita e delle origini, da contrapporre alla realtà più spiazzante dei nostri giorni».  

Ad Agnese Fallongo che «ci invita a riflettere sul quotidiano nel privato domestico, attraverso l’analisi e la storia di una famiglia, la propria, quella di tutti i giorni che custodisce segreti e imperfezioni, limiti e disincanti».

A Claudio Casadio: «straordinario attore, ironico e struggente, malinconico, poetico, commuovente».  

A Giorgio Colangeli: «la figura di Benedetto XVI è interpretata da uno straordinario Giorgio Colangeli…L’attore romano ci regala …una grande sofferenza interiore…oltre al quale l’uomo non può addentrarsi  a scapito di una integrità religiosa che si trasformerebbe in superbia».  

A Giancarlo Nicoletti per la migliore regia perché «dirige con maestria una pièce di grande forza emotiva…Lo spettacolo si avvale dell’efficace traduzione di Erba, delle suggestioni scenografie di Chiti e dei costumi di Napolitano e della Mené».    

Ancora, per la fotografia e il cinema, a Lorenzo Cicconi Massi per «la memoria visiva e la visione reale in un tutt’uno».    

A Valter Malosti – la Direzione Artistica di ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione Arena del Sole Bologna- Teatro Storchi – Teatro Bonci di Cesena  – per  «una grande apertura per tutti i linguaggi, immergendosi in prima persona nella materia teatro con il gusto del rischio a favore di una crescita della comunità».

A Mariano Rigillo, per la direzione artistica, sensibile alla nuova drammaturgia. Il suo lavoro esprime «messaggio forte che comunica il senso del fare teatro e che tocca tutte le corde della comunicazione, nel compito difficile oggi ma perseguibile, di un linguaggio onnicomprensivo, dove tutto è o diviene teatro».

All’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, presidente Gianni Letta: «per aver saputo in questi anni riaffermare l’idea di un’arte della drammaturgia e dell’interpretazione in una prospettiva di crescita culturale e professionale rivolta ai giovani studenti che si affacciano…al mondo dello spettacolo».

Il Centro Studi Franco Enriquez ha voluto inoltre ricordare durante la cerimonia della XIX edizione del premio, il “Discorso sulla lettera a una professoressa della scuola di Barbiana e la rivolta degli studenti” diretto da Enriquez nel 1968 alla Biennale di Venezia. Alla Fondazione Don Lorenzo Milani di Firenze riconosce il lavoro di conservazione della memoria, «del messaggio e del patrimonio che la Scuola di Barbiana ha significato e significa per la crescita culturale, sociale e civile del nostro paese».

Il Premio Enriquez 2023 per la letteratura italiana è assegnato a Emilio Isgrò per la raccolta di versi Si alla notte (ed. Guanda). «Isgrò ci riconduce al cospetto di Jacopo da Lentini e alle sue origini siciliane, cesellando, come un fine artigiano, una poesia d’amore struggente». Invece, alla poetessa Gabriella Cinti è andato il premio «per una poesia drammaturgica che riveste un ruolo primario nell’affermazione di un linguaggio che vuole essere protagonista di un teatro».  A Eugenio De Signoribus per la poesia che esprime «tutto l’amore, nel suo limite e nel suo illimite, quando non solo in suoni delle parole ma anche le cose indicate hanno un significato».

Nell’ordine Grandi interpreti: Luciano Biondini, fisarmonicista, (musica Jazz): «ascoltando attentamente si percepisce l’influenza di culture musicali d’oltreoceano, un sapere musicale che sconfina dal classico al jazz, ritmo e melodia e capacità d’improvvisazione che ne fa uno dei più grandi interpreti di questo antico, nobile strumento».  Inoltre, a Rita Marcotulli (musica jazz e contaminazioni): «dalla tastiera del suo pianoforte le note assumono un sembiante variopinto, che ci rimandano a reminiscenze e influenze brasiliane, africane contaminate da profumi indiani e d’oriente». 

Premio a Edoardo De Angelis e Michele Ascolese (musica pop-folk e canzone d’autore): «per aver saputo riproporre la canzone d’autore come fatto necessario e imprescindibile attraverso l’album Il Cantautore necessario2». E a Massimo Germini «per una capacità unica di affermare generi e linguaggi diversi, un chitarrista raffinato e forte di una propria identità. Qualcosa di familiare è un album che rinuncia agli artifizi tecnologici a favore di una intensità emotiva di derivazione popolare…La sorpresa finale è la voce di Germini che si rivela un fine interprete e dotato di una timbrica personale, calda e profonda».

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Ancona

In scena al teatro Cortesi di Sirolo “Il Domatore” di Vittorio Franceschi

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il domatore di vittorio franceschi

ANCONA – Sul palcoscenico del Teatro Cortesi di Sirolo, questa sera, lunedì 28 agosto, alle ore 21:30, va in scena Il domatore di Vittorio Franceschi: un testo teatrale moderno sviluppato scenicamente attraverso l’intervista. Il regista Matteo Soltanto è persuasivo. E gli attori traducono il pensiero suo nella forma più semplice e più limpida che sanno. Vittorio Franceschi e Chiara Degani: due anime che hanno l’istinto di dare sentimenti e ai pensieri l’espressione più piana e più immediata, senza sovraccarico inutile di accenti o di atteggiamenti. Perché anche loro hanno il bel carattere italiano dell’arte sana e limpida. «È difficile parlare di un testo teatrale – dice Vittorio Franceschi – prima che esso abbia preso corpo e voce, gesto e silenzi nello spazio scenico.  Un testo teatrale non è un’opera esatta, finita e immutabile come una scultura o un dipinto al museo o una poesia in un libro».

Il domatore Cadabra, interpretato da Franceschi, è un professionista che addestra animali selvatici, in particolare nella pratica circense o per spettacoli di intrattenimento. Si tratta di un mestiere che richiede grande esperienza e capacità nella gestione e nell’addestramento di animali esotici, come leoni, tigri, elefanti, cavalli o altri animali spesso presenti in uno spettacolo di doma. Il domatore può lavorare sia in teatri o circhi, sia in parchi di divertimento o show itineranti. Il suo obiettivo è quello di creare una nuova relazione con gli animali per poterli addestrare in modo sicuro e responsabile, nonché per realizzare una performance che sia allo stesso tempo divertente e coinvolgente per il pubblico. Tuttavia, la legge che proibisce l’impegno di animali nei circhi, da poco varata, impedisce a Cadabra di lavorare, perciò deve lasciare il circo, metafora della vita. La sua storia sarà raccolta da una intraprendente giornalista, interpretata da Chiara Degani, che racconterà le vicende umane ed esistenziali del “grande domatore”.    

La morale della storia è nel significato delle illusioni perché la verità è spietata. «Sapendo bene che la verità, che è spietata ma ha pietà di noi, se ne resta là, nascosta fra le pieghe di quel sipario che ogni sera, senza nulla rivelare, si chiude… anche quando il sipario non c’è. In questo testo si parla di leoni e di tigri, di clowns e di Santi, di case costruite partendo dal tetto e di grandi amori fuggiti via. E di anime che si incontrano e si scambiano il dolore come pegno. L’unica cosa che dura e non tradisce», ha chiarito Franceschi.

Il testo è stato composto durante la pandemia e pubblicato dall’editore Raffaelli, rappresentandolo in diversi teatri italiani all’età di 85 anni. Lo spettacolo è stato prodotto dalla Fondazione Teatro Due di Parma e Ctb – Centro Teatrale Bresciano. Vittorio Franceschi ha vinto con Il domatore il Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2022 come Migliore novità italiana e il Premio Franco Enriquez 2023 il premio per la drammaturgia pe il suo ultimo spettacolo.

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